La Giamaica ha un'estensione di 11.000 chilometri quadrati, su cui vivono circa 2 milioni e mezzo di persone; eppure uno studio del settembre 2001 attribuisce agli artisti dell'isola la copertura del 4% del mercato mondiale dei dischi. Una cifra astronomica, che peraltro non significa ricchezza, poiché ben pochi dei 217 milioni di euro che ne derivano incidono sull'economia locale, finendo per lo più nelle casse di etichette, management e strutture straniere. Impossibile da scippare, per contro, è la paternità della musica reggae, da oltre trent'anni ambasciatrice del Paese in tutto il mondo.
È
una storia del dopoguerra, che vede la ritmica giunta nell'isola con gli schiavi
(e da essi tenuta in vita per non perdere il contatto con le radici africane)
unirsi alle morbide inflessioni del "mento" ispirato al calypso di Trinidad
e Tobago e destinato
all'intrattenimento dei turisti: a completare la bomba, il decisivo apporto del
rhythm and blues e del jazz diffusi dalle vicine stazioni radiofoniche
statunitensi.All'inizio degli anni '50 il nuovo suono comincia a fermentare nei
primi studi di registrazione privati, mentre a metà decennio il panorama si
arricchisce di un altro veicolo essenziale per la detonazione: i sound
system, strutture destinate
al ballo, in cui i disc jockey fanno sfoggio del più attuale soul americano.
Tra i ballerini ci sono anche i giovani musicisti di Kingston, la
capitale, città che ospita oltre metà dell'intera popolazione del Paese. Che
imparano e modificano: a fine anni '50 il boogie locale subisce le mutazioni che
lo trasformano in ska, con il passaggio dal battere al levare e il martellante
schiaffo ritmico offerto dalla chitarra. Nascono così le prime leggende locali:
Prince Buster,
Coxsone Dodd,
King Stitt
e Duke Reid,
precursori del nuovo stile, dominano lascena dei sound system, mentre attorno al
rasta Count Ossi e si aggrega il nucleo da cui nascono gli Skatalites.
Le voci di LaureI Aitken,
Alton Ellis,
Owen Gray,
Derrick Harriott
violano un territorio fino al 1958 esclusivamente strumentale, e dal 1959 entra
in gioco una radio locale, la Jamaican
Broadcasting Corporation,
fondata tre anni prima della proclamazione dell'indipendenza dalla Gran
Bretagna, avvenuta il 6 agosto 1962.
È l'epopea dello ska, la fucina
in cui fino al 1966 maturano i talenti che animeranno la leggenda del reggae. Bob
Marley, innanzitutto, con gli
inseparabili amici Peter Tosh
e Bunny Wailer;
Jimmy Cliff,
presto dedito ai temi sociali; gli usignoli Ken
Boothe, Delroy
Wilson, Derrick
Morgan, Desmond
Dekker, adottati dal
movimento mod inglese e poi dai duri skinhead; gruppi vocali come The
Paragons, The
Jamaicans, The
Maytals, The
Clarendonians, in cui ancora
bambini esordiscono i vari John
Holt e Freddie
McGregor. Nonché i
produttori, il volano della scena, con musicisti e cantanti in fila davanti ai
loro studi per l'occasione della vita: i precursori Dodd
e Reid, rispettivamente con i
marchi di Studio One
e Treasure Isle;
Joe Higgs,
pigmalione dei Wailers; il cinese Leslie
Kong; lo sperimentatore Bunny
Lee; il ragazzo di bottega Lee
Perry; e Sonia
Pottinger, rara presenza
femminile aIIa consolle. Poi c'è l'unico bianco, un giamaicano di origine
inglese che si chiama Chris
Blackwell: la sua Island
Records nasce nel 1962 in
Gran Bretagna e diventa presto un traghetto sonoro tra i Caraibi e l'Europa.
La
leggenda racconta che l'estate del 1966 fu così torrida da indurre disc jockey,
musicisti e ballerini a rallentare il ritmo: cominciava la breve ma intensa
fiammata del rock steady, più lento e ammiccante rispetto allo ska. Comunque
siano andate le cose, la nuova moda sfornò canzoni da brivido, con Sam
Cooke e Otis
Redding diretti ispiratori
dei gorgheggi sensuali di Alton
Ellis, Ken
Boothe, Delroy
Wilson, Melodians,
Technoqùes,
Gayads,
Ethiopians.
Si era aperta la strada per il reggae vero e proprio, la cui comparsa avvenne
nel 1968 con il titolo di una canzone dei Maytals:
Do The Reggay. Il
reggae non fu soltanto un nuovo stile: il suo avvento nelle strade di Kingston
coincise con la sempre maggiore identificazione tra la musica e il messaggio
contenuto nella dottrina "rastafarian", in breve "rasta",
creata da Marcus Garvey,
un predicatore giamaicano divenuto celebre negli anni '20 negli Stati Uniti. La
sua profezia dell'avvento di un re nero (individuato in Hailé
Selassié I, sovrano etiope
esule a Londra), destinato a richiamare in Africa i discendenti degli schiavi
deportati, aveva cominciato a sedurre i giovani dell'isola proprio in
concomitanza con la nascita dei sound system e dello ska; ma sino alla fine
degli anni '60 i due ambiti erano rimasti (con poche eccezioni) separati: da una
parte la musica, destinata all'intrattenimento, dall'altra la spiritualità
rasta. Un filo di collegamento è la marijuana, adoperata tanto dai ragazzi
delle dancehall quanto dai praticanti con i capelli raccolti nei classici
dreadlocks per facilitare sia il contatto con il creatore, Jah, sia la
sublimazione dei problemi di tutti i giorni. Alcuni musicisti erano già
praticanti, ma con l'avvento di gruppi come The
Ethiopians e The
Abissinian e con la comparsa
dei temi spirituali e sociali nelle canzoni di Jimmy
Cliff e Dennis
Brown il reggae divenne la
voce del ghetto giamaicano, fino a trasformarsi nella bandiera ideali di tutti i
ghetti del mondo.
Il
grande salto di qualità e di immaginario si verificò tra la fine degli anni
'60 e la metà del decennio successivo, quando la genialità di produttori come King
Tubby, Bunny
Lee, Rupie
Edwards, Niney
Holness e Lee
Perry accese l' epopea del
dub, l'evocativo suono che con l'abuso di echi artigianali e le selvagge
forzature su basso e batteria avrebbe condizionato il futuro di tutta la dance
music internazionale. Le versioni si prestavano agli interventi dei dj, sia per
radio che nei system, e così personaggi come U-Roy,
Dennis Al Capone,
Scotty,
I-Roy,
Big Youth,
Dillinger,
Trinity
e Tappa Zuckie
crearono le premesse per il futuro rap statunitense. Nel frattempo era entrato
in azione l'ariete destinato a sfondare il portone dello show business
internazionale: Bob Marley e i suoi Wailers, dopo aver macinato successi sulla
scena locale, pubblicavano nel 1973 CATCH
A FIRE, dimostrando che,
nonostante alcune concessioni al suono europeo, il reggae poteva conquistare il
pubblico del rock e del soul e costruire album di alto profilo, in luogo delle
balneari raccolte di singoli fino a quel momento approdate nel Nord del mondo.
Consapevoli di tali mezzi e spinti verso l'alto dal ciclone Marley, molti
musicisti, cantanti e produttori giamaicani conobbero gloria internazionale tra
il 1973 e il 1981. I nomi di Black
Uhuru, The
Mighty Diamonds, Wailing
Souls, Burning
Spear, Culture,
Gregory Isaacs,
Jirnmy Cliff,
Sugar Minott,
Freddie McGregor,
Dennis Brown,
Max Romeo,
Sly Dunbar & Robbie
Shakespeare e le nuove
carriere soliste di Peter
Tosh e Bunny
Wailer, usciti dai Wailers,
fecero sponda sull'Inghilterra per rimbalzare nel resto dell'Europa, negli Stati
Uniti, in Sudamerica, in Giappone. E
nella Grande Madre Africa,
dove l’orgoglio nero delle nuove generazioni trovava nei fratelli giamaicani
esempi da imitare. Scene reggae importanti nacquero così in Gran Bretagna, dove
il poeta di origine caraibica Linton Kwesi Johnson, le giovani band Aswad,
Steel Pulse,
Misty In Roots e UB40 e il movimento dello ska revival (guidato da Madness, Specials,
Selecter e Beat) flirtavano, a fine anni '70, con un movimento punk attento alla
musica di Kingston: Lee Perry
lavorò con i Clash, i Ruts scrissero Jah War, Johnny Rotten fu protagonista di
uno storico viaggio iniziatico in Giamaica. Ma sound system nacquero anche nelle
periferie nere di Francia, scene locali si attivarono in Africa, dove i sogni di
libertà si accingevano a dare la spallata finale ai rimasugli del colonialismo,
mentre in Brasile il terreno di coltura più fertile si rivelò il mondo del
samba. Fu il momento di maggior gloria per il reggae giamaicano, che aveva in
Black Uhuru, Mighty Diamonds,
Culture,
Congos, Wailing Souls,
Toots & The Maytals,
Burning Spear, Dennis Brown,
Sugar Minott, Gregory
Isaacs, Max
Romeo, Freddie
McGregor, Peter
Tosh, Bunny
Wailer, U-Roy, Augustus
Pablo stelle in grado di
competere alla pari sul mercato del rock mondiale.
Ma la Giamaica era pur sempre un Paese ad alta tensione sociale, e proprio mentre la sua musica ne diffondeva ritmo e spiritualità, era lacerata da una cruenta lotta politica e dal vertiginoso aumento del tasso di criminalità. La povertà purtroppo gioca brutti scherzi e le campagne elettorali di fine anni '70 si conclusero a più riprese in bagni di sangue per gli scontri tra i sostenitori dei due schieramenti, con Marley e Tosh costretti a intervenire di persona in qualità di garanti di un'ancora balbuziente democrazia. In una nazione in buona parte analfabeta, le pantomime dei dj (il termine identifica colui che parla a ritmo su una base, mentre l'operatore alle prese con giradischi e mixer si chiama selecter) sostituivano le cronache dei giornali: Michigan & Smiley, Eek-A-Mouse, Lone Ranger, Tappa Zuckie, Doctor Alimantado, Prince Far I (ucciso nel 1983) e i veterani U~Roy, Prince Jazzbo e Dillinger divennero così i cronisti di quanto accadeva ogni giorno per strada, e spesso i loro 45 giri venivano stampati e distribuiti già poche ore dopo l'avvenimento trattato. L'immaginario dell'isola continuava intanto a tritare tutto ciò che arrivava dagli Stati Uniti e a rileggerlo con geniale creatività locale: i gangster americani, gli attori di Hollywood, il kung fu cinese hanno lasciato tracce davvero gustose nella storia del reggae.
Il
giorno 11 maggio 1981 il destino decide di far uscire dalla scena il personaggio
più forte di tutto il romanzo: con la scomparsa di Bob Marley, ucciso
da un tumore, tutto l'ambiente piomba nello sconcerto. Lo show business si
lancia alla ricerca del suo erede, ma ogni tentativo sarà vano: non certo per
demerito dei vari Dennis
Brown, Frankie
Paul, Barrington
Levy, Maxi
Priest, Junior
Reid, Cocoa
Tea o Garnett
Silk (anch'egli, peraltro,
prematuramente scomparso), né del figlio più noto di Bob, Ziggy,
indicati ora l'uno ora l'altro come reincarnazioni del Maestro, bensì per le
forzature e le troppe responsabilità caricate sulle loro spalle. Ma la vita
continua, e nella prima metà degli anni '80 reggae in Giamaica significa sempre
più sound system. Una nuova generazione di assi del microfono spadroneggia
nella dance hall: si chiamano Yellowman,
Tiger,
Admiral Bailey
e propongono testi arroventati all'incrocio tra sesso esplicito, rivolta sociale
e cronaca pura, mentre le voci di Junior
Delgado, Johnnie
Osbourne, Tenor
Saw e Sanchez
e di vecchie conoscenze come Gregory
Isaacs e Sugar
Minott contrappuntano le loro
pantomime con suadenti melodie soul. Lo spazio per i gruppi si restringe sempre
più e all'appuntamento con i ritmi digitali il reggae si presenta, nel 1984,
come una faccenda in mano a produttori, a pochi e stakanovisti musicisti di
studio, a dj e cantanti. King
Jammy, Steelie
& Cleavie, Augustus
"Gussie" Clarke, Donovan
Germain, Xterminator,
Junjo Lawes,
sono gli assi del mixer, che governano in equilibrio tra mutazioni digitali dei
ritmi classici e attenzione al lavoro emergente dei colleghi americani seduti
nelle cabine di regia dell'hip hop. Il risultato della trasformazione esplode
nel 1986 con l'avvento del raggamuffin, che nello slang di Kingston significa
"straccione". È lo stile aggressivo con cui Half Pint, Papa
San, Supercat,
JC Lodge,
Cobra,
Ninjaman,
Shabba Ranks,
Cutty Ranks,
Lieutenant Stitchie,
Little Lenny,
Lady Saw
traghettano la musica giamaicana verso gli anni '90, con risultati a volte
considerevoli anche a livello internazionale, complici le ripetute
collaborazioni con le celebrità del rap statunitense.
Ogni
ritmo importante vede cimentarsi decine di dj e cantanti, mentre argomenti forti
come il tragico passaggio dell'uragano Gilbert, nel 1988, possono riempire anche
oltre cento singoli di artisti diversi. Purtroppo però la promiscuità non è
sempre costruttiva: dalla scena hip hop il raggamuffin finisce presto per
assorbire anche gli aspetti meno edificanti, e a partire da fine anni ’80 una
vera e propria mania per armi da fuoco, crack e monili d’oro investe l'isola,
provocando un'ondata in perfetto stile gangster che costa la vita anche ad
artisti come Tenor Saw, Pan
Head e Dirtsman, mentre le
droghe pesanti danneggiano pesantemente le carriere di molti loro colleghi. Il
reggae consapevole perde colpi di fronte all'aggressività delle nuove leve ma
non cessa di esistere. Burning
Spear, Bunny
Wailer, Peter
Tosh (assassinato
in casa da un rapinatore l'11 settembre 1987), Inner
Circle, Israel Vibration, Steel
Pulse continuano a produrre
dischi e a intraprendere tournée, ma per loro è molto più facile rapportarsi
al mercato internazionale che al burrascoso ambiente della dance hall, dove
invece attivisti come Sugar
Minott, Marcia
Griffiths, Augustus
Pablo, Beres
Hammond e Tony
Rebel tengono duro, tentando
di incrociare i temi sociali e il respiro spirituale con le modalità d'assalto
dei sound system. Una scommessa che pare perduta in partenza e che invece si
dimostrerà avveduta. A metà anni '90 il ricambio generazionale porta alla
ribalta nuovi produttori, come Bobby
Digital, Dave
Kellye Shocking Vibes. Anche
il parco delle voci si allarga con l'arrivo dei ruggenti Buju
Banton, Beenie
Man, Bounty
Killer, Capleton,
Spragga Benz,
Terror Fabulous,
Sizzla,
e dei melodici Luciano,
Wayne Wonder,
Chaka Demus & Pliers,
Everton Blendel, Anthony B,
Bushman.
Partiti quasi
tutti sull'onda del raggamuffin più sboccato (slackness), dell'omofobia e
dell'elogio della violenza, gli appartenenti alla nuova generazione respirano
nella seconda metà del decennio l'aria di ritorno alla spiritualità (in verità
con tinte integraliste talora preoccupanti e oscurantiste) che investe sempre più
giovani giamaicani. Tra conversioni, rilancio di temi legati allo stile
"roots" degli anni '70 e creazione di etichette di esplicita vocazione
culturale, il reggae sembra aver ritrovato diritto di cittadinanza nel mosaico
mondiale della musica di protesta, mentre una fioritura di ristampe senza
precedenti sta riportando alla luce gioielli ingiustamente dimenticati.
Una buona introduzione alla storia del reggae e della jamaican music in generale, può essere costituita dall'ascolto del cofanetto pubblicato dalla Island in occasione del suo trentesimo anno di attività:
TOUGHER THAN TOUGH: THE STORY OF JAMAICAN MUSIC ( Island, 1993, 4 CD )
tratto da REGGAE di Paolo Ferrari (Giunti Ed.)
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